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Riforma delle pensioni o pensione delle riforme?

da Giovanni Profeta
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Il sistema pensionistico italiano è al centro di un eterno, ma sempre attuale dibattito che mira a bilanciare sostenibilità finanziaria, equità sociale e flessibilità per i lavoratori. La Legge Fornero, introdotta nel 2011, ha imposto requisiti stringenti per l’accesso alla pensione, con l’obiettivo di garantire la stabilità del sistema previdenziale: queste misure hanno sollevato preoccupazioni riguardo alla loro rigidità e all’impatto sui lavoratori, soprattutto quelli impiegati in occupazioni usuranti o con carriere discontinue.

Tra le proposte attualmente in discussione vi è l’introduzione di una maggiore flessibilità nell’età pensionabile. Ad esempio, consentire l’uscita dal lavoro a 62 anni comporterebbe, però, delle penalizzazioni economiche. Un lavoratore che sceglie di andare in pensione a 62 anni, anziché a 67, rinuncia a cinque anni di contributi aggiuntivi e subisce un calcolo dell’assegno basato su un coefficiente di trasformazione inferiore, determinando una riduzione significativa dell’importo pensionistico. Se a queste penalizzazioni si aggiungessero ulteriori tagli, come un ricalcolo contributivo sul modello di Opzione Donna o Quota 103, la flessibilità rischierebbe di rimanere solo teorica, scoraggiando molti dall’optare per l’uscita anticipata. 


I pro delle modifiche proposte

L’introduzione di una maggiore flessibilità nell’accesso alla pensione rappresenta un tema centrale nelle discussioni sulla riforma previdenziale. Da un lato, offre vantaggi significativi, ma dall’altro presenta rischi e sfide che non possono essere ignorati.

Tra i benefici principali, spicca la possibilità per i lavoratori di scegliere un percorso pensionistico che rispecchi meglio le loro esigenze personali e professionali. Questo è particolarmente rilevante per chi svolge lavori usuranti o gravosi, come gli operai edili, gli infermieri o i lavoratori turnisti, per i quali il prolungamento della vita lavorativa oltre una certa età può avere gravi ripercussioni sulla salute fisica e mentale. Una maggiore flessibilità potrebbe migliorare la qualità della vita di questi lavoratori, consentendo loro di godere del periodo di pensionamento in condizioni migliori.

Inoltre, la flessibilità risponde a una domanda crescente da parte di lavoratori con carriere discontinue o meno lineari, un fenomeno sempre più frequente nel contesto odierno caratterizzato da contratti a termine, gig economy e cambiamenti di settore. Dare la possibilità di scegliere quando andare in pensione, anche con penalizzazioni moderate, può rappresentare un elemento di giustizia sociale per chi, pur avendo contributi sufficienti, non ha un percorso professionale tradizionale.

I contro

Vi sono poi i ‘contro’ di una maggiore flessibilità, e non possono essere sottovalutati. Una delle principali criticità riguarda le penalizzazioni economiche associate all’anticipo pensionistico. Rinunciare a cinque anni di lavoro, per esempio, significa non solo perdere i relativi contributi, ma anche subire una riduzione dell’assegno pensionistico a causa di un coefficiente di trasformazione inferiore. Questo doppio effetto porta molti lavoratori a scegliere di prolungare la propria permanenza nel mercato del lavoro, nonostante le difficoltà fisiche o personali. La percezione di sacrifici economici troppo elevati rischia di rendere la flessibilità accessibile solo a chi può permettersi una riduzione significativa del reddito, aumentando così le disparità tra le diverse categorie sociali. 

Dal punto di vista del sistema previdenziale, la flessibilità potrebbe esercitare una pressione ulteriore su un meccanismo già in difficoltà. Con l’invecchiamento della popolazione ed un rapporto tra lavoratori attivi e pensionati in continua diminuzione, ogni forma di pensionamento anticipato rappresenta un costo aggiuntivo per le casse pubbliche. Questo potrebbe richiedere ulteriori misure compensative, come un aumento dei contributi o una riduzione generale delle prestazioni future, con effetti negativi su tutte le generazioni.


Criticità economiche della flessibilità pensionistica

Infine, vi è il rischio che una flessibilità “teorica” diventi più un’illusione che una vera opzione. Se le penalizzazioni economiche si rivelassero eccessive, o se non venissero previste misure di tutela per le categorie più deboli, il sistema flessibile finirebbe per essere utilizzato solo da pochi privilegiati. Questo scenario creerebbe una disparità ancora maggiore, andando a penalizzare proprio quei lavoratori che necessitano maggiormente di un accesso anticipato alla pensione. Per queste ragioni, è fondamentale che qualsiasi proposta di flessibilità sia accompagnata da un’analisi approfondita dei suoi effetti a lungo termine e da un adeguato bilanciamento tra sostenibilità economica e giustizia sociale.

Un aspetto che alimenta il dibattito sull’equità del sistema pensionistico riguarda le pensioni dei parlamentari. Attualmente, i parlamentari maturano il diritto alla pensione dopo aver completato un mandato di almeno 5 anni, con un’età pensionabile fissata a 65 anni. Per ogni anno di mandato oltre il quinto, l’età di pensionamento si riduce di un anno, fino a un minimo di 60 anni. Questo significa che un parlamentare può percepire una pensione dopo una sola legislatura, mentre la maggior parte dei lavoratori deve accumulare decenni di contributi per ottenere un trattamento pensionistico spesso inferiore. Questa disparità solleva interrogativi sulla giustizia e sull’equità del sistema previdenziale italiano. Ne riparleremo presto nel ‘Pensiero Settimanale’, aprendo un dibattito con i lettori. 


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