
La Strage di Piazza Fontana è stata una strage rossa, ma soprattutto nera. Rossa per il sangue di vittime innocenti. È bastato essere nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Nessuna “colpa”. Solo l’ignorare di essere parte di un piano più grande. Un piano elaborato da menti perverse. Malate. Quando si tratta di vite umane, il resto scompare. Le motivazioni, la lotta politica… tutto. Chi è disposto a porre fine ad una vita umana considerandola “un effetto collaterale, ma necessario” è da considerarsi un criminale. Chiunque esso sia.
Un leader, un rappresentante dello stato, un operaio. Chi gioca a fare Dio con le vite degli altri non merita rispetto; perché non lo porta. Nonostante ciò la storia non si può permettere di dare giudizi, morali od etici che siano; a mio parere, però, non ci si deve dimenticare che quando si ricordano le stragi, si deve tenere conto dell’elemento umano. Sono morti 17 civili. Persone. Con delle vite. Ciascuna con una famiglia, degli affetti, un lavoro, sogni ed obiettivi.
Il movimento che venne indagato inizialmente fu quello degli anarchici prendendo come capri espiatori Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli; ma il gruppo eversivo che storicamente è da ritenersi responsabile è quello di Ordine Nuovo. Nomi fondamentali di questo movimento di estrema destra sono: Giovanni Ventura, Franco Freda, Carlo Digilio e Guido Giannettini.
Per comprendere meglio questa storia è necessario partire dalla fine, ovvero da ciò che è stato stabilito nei processi
I processi iniziarono a Roma, in seguito furono spostati a Milano ed infine trasferiti a Catanzaro per motivi d’ordine pubblico. Qui la corte d’assise condannò: Freda, Ventura e Giannettini. In seguito venne aperto, per richiesta della cassazione, un nuovo processo presso la corte d’assise di Bari. Qui nel 1987 la cassazione assolse tutti gli imputati per insufficienza di prove condannando solamente qualche esponente dei servizi segreti per aver depistato le indagini.
Si arrivò infine ad un terzo ed ultimo processo che, nel 2005, grazie a diverse deposizioni di “pentiti” riconobbe Freda e Ventura come responsabili storici della Strage di piazza Fontana. Purtroppo non fu possibile processarli in quanto già assolti in via definitiva nel 1987. Ai parenti delle vittime fu imposto di pagare le spese processuali…
Ma analizziamo i fatti:
Alle 16:37 del 12 dicembre 1969 una carica di circa un chilo e mezzo di cartucce di gelatina di dinamite esplose nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana a Milano. L’esplosione, fortissima, portò i cittadini a soccorrere i feriti, quei pochi rimasti vivi. Oltre ai soccorritori giunsero sul posto il sindaco Aldo Aniasi, il cardinale, il prefetto e tre commissari tra i quali Luigi Calabresi. Un nome importante in questa storia. Successivamente il sindaco proclamò “il lutto cittadino”. 17 morti.
La bomba a Milano non fu l’unica ad esplodere. A Roma circa 20 minuti dopo scoppiò un ordigno presso la Banca Nazionale del lavoro dove restarono feriti 14 dipendenti. Verso le 17:30 saltarono in aria altre due bombe ferendo 4 persone. Le esplosioni sembrarono connesse, come per dare un segnale preciso al paese. La vera strage, però, rimase quella di Milano. Per anni si indagò su vari aspetti.
Riguardo l’esplosivo per esempio ci sono due differenti versioni, entrambe valide. La prima, venne sostenuta dal generale Gianadelio Maletti in due testimonianze in tribunale del 2001 e del 2010 dove suggerì che la bomba avesse un’origine NATO. Il generale però si contraddisse sul luogo del deposito. L’altra versione appartiene a Carlo Digilio (esponente di Ordine Nuovo, e collaboratore di giustizia dal 1993) il quale testimoniò riguardo un esplosivo prodotto in Jugoslavia, il “Vitezit 30”, un tipo di esplosivo usato dai militari. Un aspetto rilevante è che il foglio di istruzioni che solitamente accompagna il pacco dell’esplosivo venne trovato nell’abitazione di Giovanni Ventura (membro di Ordine Nuovo). Gli effetti dell’esplosione sono compatibili coi danni che provoca il Vitezit 30.
C’è un’ombra che accompagna questa vicenda: “pezzi” di stato e servizi segreti.
La figura più importante che risulta essere il tramite tra gli Ordinovisti e parti dello stato è proprio Guido Giannettini. Egli, definito come “l’agente zeta”, fu un importante membro del SID (Servizio Informazioni Difesa). Quest’ultimo è da ritenersi uno dei massimi esperti della strategia della tensione fedele al concetto “il nemico può essere colpito con un’azione non compiuta da lui, ma attribuita a lui”. Non sono solamente pezzi di servizi segreti ad avere informazioni importanti riguardo la strage, anche uomini di Stato. Per esempio, il ministro dell’interno (ai tempi Franco Restivo) ricevette due lettere. La prima il giorno dopo la strage; la seconda il 15 gennaio 1970. Il mittente fu l’avvocato Vittorio Ambrosini, padrino di cresima del ministro Restivo, vicinissimo agli ambienti di Ordine Nuovo.
Così tanto vicino, da partecipare ad una riunione del movimento eversivo il 10 dicembre 1969 dove si sarebbe deciso di “buttare tutto all’aria”. Dulcis in fundo Ambrosini, sostenne nelle sue lettere che parte della polizia fosse a conoscenza di quello che sarebbe accaduto. Restivo non ci credette, ignorò le lettere e la polizia continuò ad indagare sulla “pista anarchica”. Come dargli torto. È impensabile che parte dello Stato, della polizia, fosse a conoscenza di tutto e non sia intervenuto. L’ombra dello Stato però, persiste.
Il giudice di Treviso Giancarlo Stiz nel 1971 fornì un volto a questa inspiegabile ombra commentando così: “ho cominciato allora a convincermi che c’erano interessi superiori, sopra il diritto e sopra la verità e che volevano colpire delle persone senza colpa”. Sono parole forti. Pronunciate da un giudice competente. Stiz ed il suo collega Pietro Calogero, collaborarono per diverso tempo con un professore veneto, amico di vecchia data di Ventura, tal Guido Lorenzon. Per motivi sconosciuti Ventura si confidò spesso con Lorenzon, anche se non rientrava nei piani sovversivi di Ordine Nuovo.
Lorenzon è stato un professore di francese, segretario della sezione democristiana di Maserada. Infatti dopo la strage, collaborò con i giudici per contribuire alle indagini. Indossò delle apparecchiature per registrare Freda e Ventura, durante alcuni incontri, organizzati appositamente per incriminarli con le loro stesse parole. Un coraggio da leoni. Anche qui (casualmente) le apparecchiature fornite dalla polizia furono difettose. Il dottor Calogero dichiarò: “non si trattava più di dimenticanze o negligenze ma di una scelta di non collaborazione che, come ho saputo anni dopo, era stata dettata dall’Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno”.
Poche certezze, molti dubbi attanagliano questa storia. Molte ombre, tante assoluzioni. Solo nel 2005 si giunse ad una verità che imputò la responsabilità storica della strage ad Ordine Nuovo. Una certezza rimane. In uno Stato di diritto, non si possono addebitare le spese legali ai familiari delle vittime. È disumano. Significa che bisogna pagare per chiedere giustizia, per sapere la verità sulla morte, tragica, dei propri parenti.
Sempre e comunque, oltre le opinioni ed esperienze politiche dovremmo incontrarci là, dove la testa tace e lascia spazio al cuore. Con il dolore che resta, nonostante gli anni, per quelle vittime innocenti di quel lontano 12 dicembre 1969.
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