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Il pane delle Apuane: i marmi di Carrara

da Angela Abba
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Adoro il mare all’ora del tramonto, quando la spiaggia è abitata soltanto dal silenzio e dalla luce calante. Quando i bagnini chiudono gli ombrelloni, con cura pettinano la spiaggia e fischiettando riavvolgono tra le labbra le immagini della giornata. Non mi alzerei più da lì, rapita da una quiete che mi avvolge come una coperta. Eppure, quel giorno qualcosa di minaccioso aleggiava nell’aria e mi invitava a levare l’ancora e a salpare. All’improvviso il cielo si fece livido, e all’orizzonte le nuvole montavano ammassate come un gregge di pecore.

Il mare, che poco prima accarezzava la riva, divenne un palco per onde inferocite, che si gettavano sulla spiaggia con il fragore di una mandria di bufali in corsa. Ferma, piantata come un ombrellone dimenticato nella sabbia, mi lasciavo aggredire in un vortice di emozioni contrastanti. Paura, meraviglia, impotenza: tutto si agitava dentro di me, mentre il vento con i suoi ruggiti sparpagliava i miei pensieri come le carte, disperdeva le mie forze e mi lasciava nuda di fronte alla potenza della natura. E fu così che, attratta come da un richiamo invisibile, mi voltai verso le montagne di marmo.


 Montagne di marmo: bellezza, storia e fatica umana

Erano belle, rivestite da un’ombra indaco, un velo che rendeva più abbagliante la purezza del marmo. Chiazze di rocce bianche si stendevano sulle pareti, come lenzuola appena lavate, intrise del profumo immaginario di un bucato steso al sole. Come giganti silenziosi, vestiti di luce e di ombra si ergevano solenni verso il cielo. La loro imponenza parlava direttamente al mio cuore, come una preghiera elevata che attraversava il tempo. E fu allora che mi tornò alla mente un’escursione fatta tempo prima alle cave di Marmo di Carrara sulle Alpi Apuane. 

Sentivo vivo il ricordo di essermi addentrata tra quelle cattedrali di roccia, dove il vento cantava storie antiche tra le crepe e le scarpate. E intanto mi innamoravo della bellezza di quelle pennellate di bianco e di grigio, sentendomi avvolta in una strana nostalgia di qualcosa che non riuscivo a spiegarmi. Guardavo le strade arrampicarsi nella roccia, percorse da un via vai di camion a salire, simili a formiche instancabili che trasportavano nei loro cassoni la mollica bianca della montagna.

Era marmo, ma sembrava pane, una farina preziosa che per secoli ha nutrito e sostenuto le famiglie del posto. Durante la guerra, quando la fame e gli stenti divoravano tutto, la montagna offriva sé stessa come salvezza. L’estrazione era affidata ai cavatori, artificieri, carristi, scavatori la cui vita era scandita dalla fatica, dal rischio e dai pericoli. Questi uomini lavoravano armati solo di mazze, scalpelli e cunei per separare i blocchi. I lastroni venivano poi spostati con funi, carrucole e slitte in condizioni proibitive


Un viaggio nella maestosità della cava Michelangelo

Nel novecento l’industrializzazione portò macchine che cambiarono il modo di lavorare, migliorando le condizioni dei cavatori. Ed io, vicino a quelle cave, mi sentivo un lillipuziano in un mondo di ciclopi, sopraffatta dalla loro maestosità, rapita da quella bellezza ruvida e selvaggia. Le ruspe gigantesche, le scavatrici, i trapani mi sembravano creature mitologiche animate dalla stessa forza che forgiava le montagne.

Quel giorno il caldo si faceva sentire. L’aria era bollente e sullo spiazzo antistante le cave sembrava cadere la neve. Una neve fuori stagione, farinosa e soffice mi sbiancava i piedi insinuandosi fastidiosa tra le dita sudate, ci cambiava colore ai capelli, tanto da farci invecchiare tutti in pochi minuti. La polvere di marmo, così soffice al tatto, si posava sulla mia pelle come borotalco caduto dal piano di un tavolo. Per visitare le cave, bisogna munirsi di pass speciali, ottenere permessi con date e orari rigorosamente definiti. È un luogo che vive di regole e precauzioni, dove il lavoro convive con il pericolo: camion in manovra, esplosioni, frane. 

Quelle pareti, devastate dall’uomo, fatte a fette come il burro, tagliate con cavi d’acciaio tesi e lame di diamanti, mi mostravano le ferite di una lotta antica. Il marmo staccato veniva adagiato ripetutamente su un giaciglio d’acqua e poi su cuscini di metallo gonfiati per attutire gli urti, quasi come un rituale sacro. A bordo di pulmini e di jeep siamo entrati nella pancia della montagna. La cava Michelangelo, una delle più belle e visitabili, è ancora oggi un luogo che toglie il respiro, un ventre inquieto che accoglie e respinge allo stesso tempo. L’ansia cresceva, sentivo il cuore battere alle tempie come il pistone di una macchina. Il sudore colava sulla mia fronte, scivolando come il fango lungo le strade. I pulmini passavano a filo, rasentando le pareti della galleria che saliva stretta in un sesto acuto vertiginoso. 

Ogni scossone, provocato dal fondo stradale fatto di buche e profondi canali, sembrava ricordarmi che stavamo attraversando un mondo ribelle. Scatti nervosi immortalavano questo passaggio surreale: la montagna ci stava partorendo e oltre quel budello le acque sembravano volersi aprire per vomitarci su un pavimento scivoloso ruvido e irregolare. La grotta mi appariva come una creatura viva, un’anima grezza che mi mostrava il suo cuore bianco. Tutto lì era sospeso, il silenzio era rotto solo dai miei passi e dal lento gocciolio d’acqua. Le persone attorno a me sembravano aver perso la parola. 


L’aria era fresca, pungente, satura di umidità e polvere di marmo bagnata 

Un odore unico, forse il respiro stesso della montagna che mi pesava sul collo. Qua e là guardavo i segni della lavorazione: incisioni, tagli netti, ferite che si sono trasformate in cicatrici. Toccavo quelle pareti lisce e fredde e ne avvertivo tutta la solidità e insieme la fragilità della pietra. Avevo la percezione di accarezzare un’opera incompiuta della natura, un capolavoro a metà in attesa di essere svelato.

Ricordo che mi tremavano le dita mentre sentivo il marmo pulsare sotto la mia mano come vivo. Forse era questo, pensavo, il senso di turbamento e di stupore che un grande artista come Michelangelo doveva provare: la consapevolezza che non fosse lui a creare, ma la roccia stessa a svelare i capolavori prigionieri dentro di sé. A lui il marmo concedeva e affidava la bontà di liberarli. In quel momento, come un ospite in punta di piedi e con il cuore appoggiato alle pareti, sentivo che si apriva per cogliere la voce della pietra.


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