Lascio la statale SS36 e mi inerpico su per una collina che sembra chiamarmi, tra boschi fitti di castagni. Man mano che mi avvicino alla cima, il verde si sfoltisce e da qualche parte incomincio a vedere il cielo. La pedalata si fa pesante: le gambe mi bruciano, il respiro, corto e ravvicinato, accelera. Abbasso le marce e recupero il fiato. Alla fine del bosco la strada è interrotta da una sbarra chiusa. Mi chino, passo sotto con la bici e come per magia il paesaggio cambia.
Davanti a me si apre una piana, brulla e rocciosa, un terreno spoglio con macchie di vegetazione selvatica. Tutto sembra immobile, come un palcoscenico dopo che le luci si sono spente. Lungo la salita, avevo incontrato cartelli che gridavano al mondo un messaggio trionfale: “A Consonno è sempre festa”. Ma dove sono le persone, dove sono le risate dei bambini e l’allegria che anima i sogni? Dov’è la vita? In un istante tutto mi è chiaro: mi trovo davanti al teatro dell’assurdo, ad una porta girevole nel deserto: un luogo che avrebbe potuto essere e che invece è diventato niente.
La caduta nel silenzio
Consonno, la città sospesa nel tempo, è un teatro dove desolazione e meraviglia si intrecciano, urlando insieme il fallimento di un’idea. Appoggio la bicicletta ad un muro sbrecciato e mi assicuro che il mio cellulare sia carico. Devo catturare ogni dettaglio di questo posto che sembra sbriciolarsi sotto il peso del tempo. La nebbia si alza dall’Adda come un sipario cala sulla piana, nascondendo e rivelando pezzi di una città cancellata. La ruggine si è divorata tozzi di cementi armati, le muffe si sono mangiate intere pareti di intonaco e la grandine ha giocato a sassaiole sulle vetrine dei negozi, lasciandole in frantumi. Alcuni alberi si sono abbattuti sui balconi trascinandoli brutalmente a terra.
Questo luogo è avvolto in un incantesimo, un sortilegio sembra aver fermato il tempo e lasciato alla natura il compito di finire l’opera. Mi sembra una scena uscita da un libro di fiabe per bambini, dove il lieto fine non arriva mai. Il mio compito, oggi, è quello di documentare il fascino decadente e surreale di un luogo, dove passato e presente si intrecciano in un’atmosfera suggestiva, spettrale e malinconica.
Oggi vi racconto ciò che è rimasto del sogno dell’imprenditore Mario Bagno che, negli anni 60, mosso da un’ambizione visionaria, acquistò l’intero borgo, con l’intento di trasformarlo in una “Las Vegas della Brianza”. Ma quel sogno non resistette alla realtà, alle frane che isolarono la città e al tempo che la inghiottì. Bagno immaginava un paradiso turistico, una terra promessa fatta di lusso e di divertimento, e per realizzare questo, rase al suolo l’antico borgo per far spazio ad edifici moderni e stravaganti.
La città è un museo di rovine moderne: una vecchia carriola da muratore, accostata ad un muretto, senza più una ruota, lasciata lì persino dai vandali perché inutile per lavorare. Una ruspa i cui cingoli sono saltati da decenni, giace immobile come un dinosauro estinto. E poi c’è un vecchio jukebox che sembra vergognarsi di mostrare il suo degrado: ha ingoiato al suo interno persino i dischi per nascondere ciò che un tempo era capace di fare. Faccio un passo alla volta appoggiando con cautela i piedi, con la stessa lentezza di un astronauta sul suolo lunare. Mi avvicino agli edifici con rispetto e timore. Alcuni sono pericolanti e in evidente stato di degrado, minacciosi nelle loro fragilità, con muri incrinati e tetti che sembrano trattenersi a stento.
Consonno era stata battezzata “La città satellite”
Nella mente di Mario Bagno Consonno era destinata a diventare un borgo di intrattenimento, di svago, di commercio, un polo turistico per tutto il nord Italia. L’idea, tanto ambiziosa quanto utopistica, era di creare una città moderna, completamente autosufficiente, una sorta di “satellite” che orbitasse attorno ai principali centri urbani. La città non era destinata a diventare un’area di residenza o industriale, ma una sorta di Disneyland locale. Purtroppo, nel 1976 una frana isolò l’unica strada di accesso al paese a soli 16 anni dall’inizio dei lavori di costruzione.
Quell’evento insieme allo spegnersi di interesse, segnò la fine del sogno di Consonno che si trasformò da un progetto ambizioso a città fantasma. Camminare tra i suoi resti mi pareva di entrare in un dipinto surrealista dove il sogno di un imprenditore si è scontrato brutalmente con la realtà. Le strade aggredite dalla vegetazione, cartelli arrugginiti fuori dai palazzi, sono diventati beffardi manifesti di un’epoca morta, con ciuffi d’erba che crescono dai muri e dalle buche dell’asfalto. Sembra che la natura stia reclamando ciò che le appartiene.
Alberi rampicanti si attaccano alle pareti, invadono i cortili e le muffe si insinuano nelle stanze vuote. La vegetazione copre e abbraccia i ruderi come se la terra avesse deciso di cancellare e punire l’arroganza umana, trasformando quel luogo in un giardino di ombre e di silenzio. Il vento soffia il suo lamento tra le strutture vuote, edifici rimasti in piedi come gli ultimi soldati nelle retrovie di un esercito, sconfitto e in attesa di un destino crudele.
Dalla “Las Vegas della Brianza” alla città fantasma
Tra i principali edifici di Consonno emerge sopra tutti il Minareto con la sua torre che svetta in un cielo d’acciaio. I suoi colori sbiaditi evocano terre lontane, moschee dove i muezzin chiamano i fedeli alla preghiera. Un pezzo d’oriente piantato nel cuore della Brianza, ormai privo di voce, ma capace di portare l’immaginazione lontano. Accanto la galleria commerciale, con i suoi mosaici che si sgretolano come calce secca staccata dai muri. Il grand hotel, un tempo promessa di lusso, è ora una carcassa vuota. Le sue finestre rotte sembrano occhi ciechi che guardano un mondo di abbandono e di sogni mai vissuti. E poi c’è ciò che resta dei sogni mai realizzati: un campo di calcio, quello di pattinaggio, il tiro a volo, l’autodromo, un campo da tennis, il luna park, il giardino zoologico, ed il trenino panoramico.
Oggi quel sogno giace sotto un cielo di silenzio, spezzato solo dal lamento del vento che passa tra gli edifici vuoti. Credetemi, avrei voluto mostrarvi quella città con gli occhi sgranati di una bambina che mezzo secolo fa, tenendo la mano al suo papà, saltellava felice di essere arrivata nel “paese dei balocchi”.
Leggi anche:
- L’era delle micro-comunità online
- Ahi Ai Europa
- L’ultima scelta
- UE: l’umiliazione è mondiale
- Percorso tra speranza, sofferenza e attesa