Alcune scelte sono apparentemente semplici, altre invece sono molto sofferte, e ragionare sul peso delle loro conseguenze ci getta spesso nell’angoscia.
Di fronte ad un bivio, l’interrogativo è questo: c’è un modo per fare la scelta giusta? Per dare una risposta a questa domanda, bisognerebbe prima rispondere onestamente ad un altro quesito: sono completamente libero/a di prendere una decisione? In questo modo il punto fondamentale della questione si sposta sul concetto di libertà, parola polisemica, abusata e fraintesa dalla notte dei tempi. Questi miei pensieri apparentemente astratti scaturiscono invece dall’aver appreso un fatto molto concreto: la notizia dell’approvazione da parte della Regione Toscana della legge sul fine vita.
Dal giorno 11 febbraio, infatti, è la prima Regione italiana a garantire ai malati, tempi e modalità certi per l’accesso al suicidio medicalmente assistito. I requisiti necessari per fare richiesta del farmaco per l’iniezione letale e dell’assistenza nell’autosomministrazione sono: irreversibilità della patologia, presenza di sofferenze fisiche o psicologiche che il paziente reputa intollerabili, dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale anche farmacologici, capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli.
È un tema delicatissimo che impegna non solo i politici, ma che indaga profondamente nel pensiero di molte persone. Non è senz’altro mia intenzione addentrarmi nel dibattito politico, anche perché sono convinta che la legge sia il luogo meno adatto per depositare visioni sul valore della vita.
È inevitabile però interrogarsi su cosa significhi veramente scegliere il proprio destino prendendo decisioni “libere e consapevoli”
La responsabilità della scelta è veramente dettata dalla libertà personale di ognuno? Fino a che punto una società può e deve accompagnare un individuo in questa scelta così sofferta e drammaticamente definitiva? Questa novità legislativa pone l’accento su un tema che ci riguarda tutti da vicino: la dignità della vita fino all’ultimo respiro.
Se guardiamo la notizia non dal punto di vista dei “diritti” in senso giuridico, ma del percorso esistenziale di un essere umano che si trova a non desiderare più la sua vita, si apre una visione completamente diversa. Quale percorso di consapevolezza ha fatto quel malato che decide di mollare? Il suo è un rifiuto nei confronti della vita oppure della solitudine e del senso di abbandono?
Scegliere liberamente e consapevolmente significa per prima cosa comprendere; per comprendere bisogna ricevere supporto, essere accompagnati sotto tutti i punti di vista, non solo quelli medici previsti dalla normativa.
Libera scelta e diritto alla vita
È necessario conoscere la nostra natura più profonda, nella consapevolezza che siamo fatti non solo di corpo, mente e sentimenti, ma anche di spiritualità, che, esulando dall’essere credenti o meno, ci interroga sul senso profondo del nostro essere al mondo. Il vero nodo della questione allora non è il diritto alla morte, ma il diritto alla vita. Garantire a chi è nel dolore un cammino umano fino alla fine, che rispetti i tempi e soprattutto il bisogno di non essere soli è un percorso aspro, difficile, spesso impopolare. Un percorso pieno di difficoltà e cadute.
Questa legge è una cosa estremamente seria, perché la vita e la morte sono cose estremamente serie. Ignorare questo come collettività significa accontentarsi di vivere nello strato più epidermico dell’esistenza. Cosa dice questa legge di noi come società, e in particolare, siamo capaci di affrontare la sofferenza in modo maturo e soprattutto collettivo?
Oltre il diritto, verso l’umanità
Sono temi che mi toccano nel profondo perché li ho vissuti sulla mia pelle. Ho da poco assistito un mio familiare negli ultimi complicati anni della sua vita, decidendo di lasciare il lavoro proprio per accompagnarlo fino in fondo. Posso testimoniare che nella sua estrema fragilità, è rimasta una persona degna di questo nome fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo sguardo, anche se non c’era altro da fare che aspettare la fine.
È così che sogno di andarmene anch’io, circondata dall’affetto dei miei cari che non hanno permesso l’accanimento sul mio corpo con terapie inutili, ma che mi hanno presa per mano con il loro amore. Alla luce di questa mia esperienza non posso non chiedermi se questa “libertà ultima” sia davvero una conquista o un segnale del nostro tempo, impregnato dall’imperante cultura dello scarto.
Alla fine di tutto, siamo davvero liberi solo quando possiamo andarcene, oppure la nostra libertà è sentirsi accompagnati fino alla fine, senza il peso della solitudine?
Leggi anche:
- L’AI generativa sta riscrivendo la creatività?
- L’era delle micro-comunità online
- Ahi Ai Europa
- L’ultima scelta
- UE: l’umiliazione è mondiale
1 commento
Un grazie sincero per la delicatezza e l’ umanità con cui hai tratto un tema così complesso e doloroso come il fine vita. Lo hai fatto con rispetto, senza prevaricare o dare giudizi. Hai accarezzato con le parole e con il cuore un tema che spaventa che ci riempie di paura ma che appartiene alla vita sin dal suo inizio. Grazie di cuore ❤Paola Magistri