Il benessere oggi non è più un semplice obiettivo di salute, ma un vero e proprio stile di vita, spesso influenzato dai social media e dalle tendenze globali. La generazione Z – i giovani sotto i 25 anni – lo interpreta in modo unico, mescolando estetica, tecnologia e una buona dose di pressione sociale. Ma questa ricerca della perfezione fisica e mentale è davvero sinonimo di benessere? O nasconde un vuoto esistenziale che fatica ad essere riempito? Per molti giovani, il benessere è diventato una performance. Si mostra, si misura e si condivide online. Ma a furia di immortalare allenamenti in palestra e routine di self-care su Instagram e TikTok, si rischia di perdere il senso profondo di ciò che significa prendersi cura di sé.
Va bene la palestra, ma…
Tra i luoghi più frequentati dai giovani della generazione Z, le palestre si sono trasformate in veri e propri templi moderni. Non è raro trovare ventenni che vi si recano due, tre o addirittura cinque volte a settimana, seguendo routine rigorose di allenamento per scolpire il corpo perfetto. Riflettiamo insieme: questo entusiasmo per il fitness nasconde un paradosso: mentre si dedica tempo e fatica alla definizione muscolare, si trascura una forma di benessere altrettanto importante, quella che nasce dalla connessione con la natura.
Le passeggiate all’aria aperta, un tempo considerate uno dei piaceri più semplici e salutari, sono quasi scomparse dalla vita quotidiana di molti giovani. Camminare in un parco, esplorare un bosco o semplicemente respirare aria fresca sembra non reggere il confronto con la pompa della palestra e l’effetto scintillante dei selfie davanti allo specchio. Il messaggio che si rischia di trasmettere è chiaro: il valore del corpo risiede più nell’aspetto che nel benessere autentico.
Viaggi lontani, ma radici perse
Un altro tratto distintivo della generazione Z è la voglia di viaggiare. Mai come oggi i giovani si definiscono “cittadini del mondo”, pronti a saltare su un aereo per esplorare mete lontane. Dal safari in Africa al tour delle metropoli asiatiche, i viaggi sono vissuti come un’esperienza di status da condividere sui social. Eppure, in questa frenesia di spingersi lontano, si nota una certa disconnessione con ciò che è vicino. Quanti ventenni conoscono davvero i borghi medievali del proprio territorio, le tradizioni culinarie delle città italiane o la storia dei monumenti che hanno sotto gli occhi ogni giorno?
Il viaggio è diventato un simbolo di fuga e dimostrazione sociale, più che di esplorazione ed arricchimento personale.
Self-care o consumo?
Un altro trend dominante tra i giovani è la cultura del self-care, una pratica che dovrebbe rappresentare un momento di introspezione e rigenerazione personale, che spesso si traduce in un accumulo di prodotti e rituali estetici che puntano più al consumo che al vero benessere. Le routine di skincare, i bagni profumati e le candele aromaterapiche sono diventati oggetti di culto, ma quanto di tutto questo è autentico? Il rischio è che il benessere performativo – l’idea di essere felici e sani per dimostrarlo agli altri – svuoti di significato il concetto stesso di prendersi cura di sé.
Curiosità: secondo un recente studio di mercato, la generazione Z spende mediamente il 30% in più rispetto ai millennial in prodotti legati al self-care, ma meno del 10% in esperienze legate alla crescita personale, come corsi, libri o attività culturali. C’è però un lato positivo: il dialogo sulla salute mentale è finalmente emerso dall’ombra. I giovani di oggi non hanno paura di parlare di ansia, stress e fragilità. Il boom delle app di journaling digitale, come Day One o Reflectly, e delle piattaforme di meditazione guidata, come Headspace, dimostra una volontà collettiva di affrontare il proprio benessere interiore.
Un equilibrio tra digitale e realtà
Anche i social media giocano un ruolo importante in questa trasformazione. Creatori di contenuti, influencer e persino celebrità condividono le proprie lotte personali, normalizzando il ricorso alla terapia e promuovendo l’idea che prendersi cura della propria mente non sia un segno di debolezza, ma di forza. La tecnologia è al centro della vita della generazione Z, ma spesso si traduce in una connessione costante agli schermi e in una disconnessione dal mondo reale. La ricerca del benessere dovrebbe portare ad una riconciliazione tra queste due dimensioni: utilizzare le app per monitorare la propria salute fisica e mentale, senza dimenticare il valore di una camminata in un parco o di un weekend senza Wi-Fi.
Un esempio interessante è rappresentato dai “forest bathing“, una pratica giapponese che unisce il potere terapeutico della natura con un approccio consapevole alla vita. Eppure, questa tendenza, sebbene in crescita, resta ancora lontana dall’abitudine dei giovani, che preferiscono scrollare i social o frequentare palestre iper tecnologiche.
A ben guardare, il vero problema della generazione Z non è la mancanza di opportunità, ma l’incapacità di fermarsi. Sembra che tutto debba essere documentato, misurato, reso visibile agli altri. Non basta più essere in forma, bisogna mostrarlo. Non basta stare bene con sé stessi, bisogna gridarlo al mondo. Il risultato? Un ciclo infinito di confronto e pressione sociale, dove il benessere diventa un’altra casella da spuntare nella lista delle cose da fare.