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Il colibrì. La sudata felicità delle mezze altezze

NON CHIEDE DI VEDERE LE STELLE, NON ASPIRA AD ESSERE AQUILA

da Sabina Aversa
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Anni fa gironzolando in una libreria con luci soffuse e musica soft di sottofondo il mio sguardo ha incrociato un libro di Alessandro Veronesi, da cui sarebbe stato tratto un film magistralmente interpretato da Pierfrancesco Favino nel ruolo del protagonista. Il titolo era: il colibrì.

Passandomelo di mano in mano come una pallina da tennis fuori corsa ho letto sottovoce le righe introduttive di copertina: tu sei come un colibrì che impegna tutta la sua energia per rimanere fermo.

In queste poche parole c’era l’essenza di un’esistenza che appartiene ad una moltitudine di gente che vive nel quotidiano guadagnandosi di ora in ora la stabilità, la fermezza della situazione.

Il colibrì è un simpatico volatile che sbatte le ali un’infinità di volte al secondo pur di rimanere all’altezza conquistata.

Non vuole le grandi altezze, non aspira ad essere aquila perché modestamente accetta di essere sé stesso, ma si guadagna quella porzione di tronco di albero dinanzi allo sguardo. Non chiede di vedere le stelle, incredibilmente.

Eppure quella modesta altezza quanto gli costa, quanta fatica, quanto impegno. Allo stesso modo quanti di noi vivono senza chiedere molto eppure devono guadagnarsi una quotidianità ritmicamente lineare.

Quanto la normalità diventa fatica, la routine sapore buono, le abitudini culle su cui dormire a fine giornata serenamente. Tanti di noi aspirano agli ultimi posti per discrezione, perché a volte la vita si svolge come un film da visionare dal fondo sala, magari smangiucchiando e usando atteggiamenti diversi dagli altri spettatori.

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E va bene così, va bene “niente nuove, buone nuove”, va bene non avere per forza smanie di grandi altezze, e godersi la felicità delle mezze altezze quelle che se cadi non ti fai tanto male, ma che se vuoi alzare lo sguardo vedi sempre il cielo azzurro.

È tempo di vacanza, e mai come in questo periodo siamo tutti colibrì, sbattiamo le ali forsennatamente accontentandoci di vivere la vita solo per quei quindici giorni all’anno, smaltendo mesi di lavoro usurante, noioso, inutile, dissacrante.

Ci accontentiamo di essere felici solo per pochi giorni, sbattendo le ali, intraprendendo viaggi improbabili, a mani giunte su autostrade di fuoco, a gambe strette in lunghe file per la toilette degli autogrill, in quinta fila di ombrelloni guadagnando la riva di acque chiare o inquinate, tante specie tropicali (la zanzara della febbre del Nilo, o il vermocane) ci inseguiranno ovunque, anche fino all’ombra della quinta fila.

Eppure saremo in vacanza, con tutta la fatica che comporta, con la brevità del periodo che il datore di lavoro concede, con l’abbronzatura che dovrà durare fino alla prossima estate, con la prova costume che avresti preferito fare in posti da alieno e non da indigeno, con i gamberoni imperiali che ti concedi a dispetto del mutuo che onnipresente ti segue come ombra.

Fatichiamo, per restare fermi, per vivere una volta all’anno la felicità di essere liberi, di concedersi pause, di stringere relazioni, di concedersi aperitivi sulla spiaggia.

E al ritorno, archiviate le vacanze e la stanchezza che inevitabilmente queste comportano su cui toccherà lamentarsi al rientro con le amiche, saremo ancora colibrì perché ci basterà fare la vita che facevamo.

Non alziamo asticelle, non sogniamo glorie, siamo noi che ritorniamo alle piccole abitudini del nuovo anno che ricomincia, il primo capodanno, non quello che festeggiamo a fine dicembre, quello che le agende scolastiche hanno sempre sancito.

Il nuovo anno, le nuove proposte di vita ancora godereccia delle spiagge che ci hanno visto formato trendy.

Ci vuole coraggio, forza, determinazione, impegno per rimanere alla mezza altezza di sempre, e se non siamo aquile non vogliamo esserlo.

Non ci interessa ghermire ed essere predatori, vogliamo mantenere il legame con ciò che abbiamo davanti senza cadere improvvisamente nel baratro che poi dei vuoti d’aria li abbiamo tutti e inevitabilmente sfioriamo il suolo in picchiata, ma ci rialziamo con centinaia di battiti d’ali, e in quel momento guardando su incrociamo l’ombra di un’aquila, regale, di altre altezze, eppure feroce nel suo istinto, a caccia di deboli da farne cibo.

Godiamo della sua ombra senza volerne prendere il posto. La fatica del volo che ci appartiene così leggiadro, così intenso, che non mostra fatica ci rende forti nei movimenti, invisibili ai più ma sicuri delle nostre più nobili intenzioni: vivere ciò che vogliamo raggiungere, e se per gli altri non è abbastanza, per noi sarà la felicità.

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