Una volta i social media erano il regno della spontaneità. La foto scattata al volo con un filtro approssimativo, i video mal montati, i post scritti sull’onda dell’entusiasmo o dell’ispirazione del momento. Oggi, quel mondo sembra lontano anni luce. Nell’era dei profili “certificati”, delle “spunte blu” a pagamento e delle campagne che rasentano il professionismo cinematografico, essere online non basta più: bisogna dimostrare di esserci “ufficialmente”.
Ma cosa significa davvero essere certificati? È un segno di autenticità o un semplice esercizio di vanità? E soprattutto, dove ci sta portando questa evoluzione?
Dalla meritocrazia al mercato: il valore della credibilità online
Negli ultimi mesi, la tendenza è chiara. Con piattaforme come Twitter (ora X), Instagram e Facebook che offrono la possibilità di ottenere una spunta blu in cambio di un abbonamento mensile, il concetto di credibilità online è stato profondamente trasformato. Prima, la verifica era riservata a personaggi pubblici, aziende e influencer di un certo calibro, un simbolo di distinzione ottenuto con fatica e meritocrazia digitale. Ora, chiunque può avere la sua spunta, purché disposto a pagare. Questo sposta il discorso dalla meritocrazia al mercato: il valore di una presenza online non si misura più solo in base al contenuto, ma anche in base alla capacità di investire.
La critica principale a questa tendenza riguarda l’impatto sulla percezione dell’autenticità. Se tutti possono essere “certificati”, cosa significa davvero esserlo? Da simbolo di autorità e credibilità, la spunta blu rischia di diventare un semplice badge decorativo, privo di significato per chi cerca figure autorevoli online. D’altra parte, c’è anche chi difende il modello a pagamento, sostenendo che democratizza l’accesso a strumenti prima riservati ad una minoranza privilegiata. Pagare per la spunta blu, secondo i sostenitori, è un investimento sulla propria identità digitale, un modo per distinguersi in un mare di contenuti e creare un rapporto più diretto con il proprio pubblico.
Spunta blu? Apparenza contro sostanza
La questione, però, non si ferma qui. C’è un lato più sottile e forse più inquietante di questa tendenza: il peso crescente dell’apparenza rispetto alla sostanza. In un mondo dove l’autenticità si compra e la credibilità è affittata su base mensile, il rischio è che i contenuti passino in secondo piano. La qualità lascia il posto alla quantità di risorse investite nella propria immagine. E questo vale non solo per gli individui, ma anche per le aziende, che si trovano a competere in un’arena sempre più affollata e stratificata.
Eppure, in questo panorama apparentemente desolante, c’è anche spazio per una riflessione ironica e critica. Se prima ci si chiedeva “cosa pubblico per essere notato?”, oggi la domanda è diventata “quanto spendo per essere riconosciuto?”. La spunta blu è diventata un po’ come una borsetta firmata o un’auto di lusso: non è indispensabile, ma fa parlare di sé. E, si sa, nei social media tutto è una questione di visibilità. Il paradosso è che, mentre investiamo per apparire autentici, rischiamo di perdere proprio quel tocco di autenticità che ci rendeva interessanti all’inizio.
Il grande assente nella stanza
Forse è il momento di tornare a concentrarsi su ciò che conta davvero: i contenuti. Perché, spunta blu o meno, ciò che rimane nel tempo non è un badge, ma la capacità di coinvolgere, ispirare e creare connessioni reali. Certificare la propria presenza online è una scelta, ma non dovrebbe mai essere un surrogato della sostanza. La sfida, oggi, è trovare un equilibrio tra l’apparenza e l’essenza, tra il desiderio di emergere e il bisogno di restare fedeli a sé stessi. In fondo, come ci insegnano i social media stessi, la vera autenticità non si compra. Si costruisce. Post dopo post. Connessione dopo connessione.
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