Avrete certamente presente lo scandalo USAID, che abbiamo sviscerato nelle scorse uscite e sul quale ci eravamo lanciati in una previsione: ne avrebbero parlato in pochi e sarebbe durato poco, prima di finire nel dimenticatoio sanremese.
Così è andata, e così il fatto che una ex organizzazione benefica usasse fondi pubblici per propaganda funzionale agli Stati Uniti in diversi paesi del mondo, è passato in cavalleria senza che si approfondisse troppo.
Sia chiaro che a noi non piace l’uso della parola “propaganda” solo per delegittimare un’opinione a noi non congeniale, come invece ormai accade sempre più negli spazi televisivi e digitali.
Inquadriamo immediatamente quello che non ci piace della questione: a parte l’utilizzo di denaro pubblico per scopi che al pubblico interessano poco (come la promozione dell’ateismo in Nepal o i progetti di ingegneria sociale per far digerire meglio delle misure impopolari), la domanda che sorge spontanea, quando si paga qualcuno per diffondere un’opinione è: perché si dovrebbe pagare – con una certa continuità e senza farlo sapere troppo in giro – per diffondere qualcosa di sensato?
Chiarito il dubbio, andiamo allo svolgimento
Se pensate che questo modo di operare riguardi solo USAID, vi sbagliate. Ci spostiamo in Europa dove, a soli pochi giorni, troviamo un caso molto simile di spinta alla propaganda, sempre con denaro pubblico, ma con fini diversi. E forse anche peggiore.
Se USAID ha pagato giornalisti in giro per il mondo con lo scopo di divulgare verbi quali l’ateismo, l’obbedienza e la ribellione verso capi di Stato sgraditi, stavolta ci troviamo di fronte ad un caso di “auto-propaganda”, come si evince dal rapporto di Thomas Fazi, giornalista indipendente che per primo ne ha parlato. La Commissione Europea sta cioè assumendo una tendenza sempre crescente negli ultimi anni ad utilizzare i suoi poteri di bilancio per promuovere l’agenda e “i valori europei”. E fin qui, direte, ancora nulla di male. Quale governo non fa un po’ di autopromozione, in fondo?
In realtà qui le cose si mettono male, perché non si tratta di semplice promozione di sé stessi: le istituzioni comunitarie si affidano invece ad un sistema di ONG perché ciò si realizzi, assolda cioè organizzazioni indipendenti che però in molti casi sono fortemente dipendenti da questi fondi, e che in cambio fanno da megafono, creando volentieri l’illusione che delle aggregazioni di cittadini, spontaneamente e senza fini di lucro, chiedano a gran voce “più” di quelle politiche a loro care.
Di che politiche parliamo?
Alla Commissione Europea piace riempirsi spesso la bocca di termini come “trasparenza”, “valori comuni”, “principi democratici” e lo stesso fa quando mette a bilancio questi soldi, giustificandone l’uso. Ecco perché è quando si utilizzano parole generiche che va buttato un occhio in più: dietro i soldi messi a bilancio per la “promozione dei valori” si celano spesso battaglie prettamente politiche che seguono una precisa agenda. Se ad esempio si fanno delle ricerche – nemmeno troppo approfondite – sui think tank che promuovono le battaglie care all’attuale establishment UE, si scopre nella stragrande maggioranza dei casi che questi ultimi sono spesso legati a doppio filo con la NATO. Ognuno indaghi da sé e ne avrà prova, anche se occorre guardarsi bene dal dire che non esistano ONG che fanno bene il loro lavoro.
Nel caso che però qui esaminiamo, le battaglie di sensibilizzazione dei think tank pagati attraverso il programma CERV (Cittadini, Uguaglianza, Diritti e Valori) sono sempre le medesime: genderizzazione della scuola, laicismo sfrenato e un certo bellicismo che negli ultimi tempi non guasta mai. Tutto potenzialmente buono e giusto, ma che ha come effetto collaterale la creazione di un’illusione.
L’illusione dell’esistenza di un popolo
Un popolo che, ad esempio, chiede che si alzi la spesa bellica degli Stati o pretende che, in sede di decisioni importanti per tutto il continente, il diritto di veto delle singole nazioni venga ridotto.
Parliamo della creazione di una vera e propria domanda artificiale di politiche che, non fosse per quei soldi, nessuno – o quasi – sosterrebbe.
Quella che Thomas Fazi chiama un’operazione di “propaganda per procura” ha però anche altri effetti, oltre quello di drogare il dibattito pubblico facendo di organizzazioni apparentemente indipendenti il proprio megafono. La natura della “macchina di propaganda delle ONG” rimane fondamentalmente “antidemocratica”, secondo l’autore del rapporto, anche quando questa fa sentire la sua influenza in Stati politicamente amici di quell’agenda politica – spinta con circa 2 miliardi di euro in tutto.
Più grave è invece quando queste lotte diventano delle vere e proprie aggressioni politiche (o rivoluzioni colorate) nei confronti di governi critici, sovranisti o euroscettici. In un’epoca in cui quella che viene chiamata in modo dispregiativo “la crescita dell’onda nera” in tutta Europa è un dato politico sempre più rilevante, in un tempo in cui sempre più cittadini credono nell’Europa delle Nazioni e non nel colosso unico, pagare perché in piazza scendano i paladini del “più Europa” senza che in giro si sappia troppo dei finanziamenti pubblici utilizzati per questo, diventa una vera e propria interferenza nei normali processi democratici.
Dopotutto a chi farebbe piacere sapere che i suoi soldi vengono utilizzati per dire in giro che la censura online e comprare più armi sono le chiavi per un futuro buono e giusto?
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